Come evitare il contagio finanziario

Articolo di Fabiano Schivardi (Luiss e EIEF)
realizzato in collaborazione con l’Ufficio Studi di Cerved

Una questione fondamentale per prevedere gli effetti economici del corona virus è capire se lo shock sarà temporaneo, cioè se dopo il lockdown l’economia tornerà al livello precedente, o se la caduta nel reddito non verrà riassorbita in tempi brevi. Ciò dipende da quante imprese italiane falliranno per crisi di liquidità dovuta al calo delle vendite. I fallimenti richiedono molto tempo per essere riassorbiti, prolungando gli effetti dello shock; i mancati pagamenti potrebbero amplificare il contagio finanziario ad altre imprese, con un effetto a catena sull’intera economia, coinvolgendo anche i pochi settori non colpiti da questa crisi. In poco tempo riprenderebbero a crescere gli NPL e il contagio si estenderebbe anche al settore finanziario.
In questa fase, obiettivo fondamentale della politica economica è quindi quello di evitare i fallimenti. È un obiettivo condiviso e la risposta data dalle istituzioni è quella giusta: whatever it takes. Ma per funzionare ha bisogno di essere credibile, e quindi sarebbe utile avere un’idea di how much it takes. Una promessa di garantire qualunque cosa, dato anche il debito pubblico italiano, potrebbe risultare non credibile e quindi non essere efficace.

L’utilizzo dei big data e dei bilanci delle imprese può aiutare a canalizzare le risorse in modo chirurgico verso le società che ne hanno bisogno, massimizzando i benefici per il sistema produttivo e minimizzando gli effetti sulla finanza pubblica. Così come le persone sono colpite dal virus con diversa intensità e hanno capacità diverse di reagire, anche le imprese hanno diversi gradi di esposizione (calo delle vendite della produzione) e di difese immunitarie (riserve finanziarie): non tutte hanno bisogno della terapia intensiva.
Abbiamo analizzato i bilanci di 720 mila le società di capitali italiane, che coprono circa il 55% degli occupati dipendenti e che generano un valore aggiunto pari a un terzo del Pil italiano. Sono disponibili i bilanci del 2018, l’analisi quindi implicitamente assume che le imprese abbiano bilanci simili nel 2019. A questa base si applicano le previsioni di variazione dei ricavi che Cerved ha elaborato per oltre 200 settori economici sulla base di due scenari:

  • uno scenario cauto, secondo il quale l’emergenza sanitaria durerebbe fino a giugno, sarebbero necessari due mesi per tornare a una situazione di normalità e da settembre si tornerebbe ai livelli pre-COVID19;
  • uno scenario pessimistico, secondo il quale l’emergenza durerebbe fino alla fine dell’anno, con un sostanziale isolamento delle economie.

Per determinare quali imprese vanno in crisi, allo stock di liquidità dichiarata nel bilancio si somma mese per mese il cash flow, definito come le vendite meno costi. L’andamento delle vendite mese per mese è stimato per 200 settori dal modello previsionale Cerved. Si assume che la spesa per intermedi vari del 50% rispetto a quella delle vendite (cioè se le vendite calano del 20% la spesa per intermedi cala del 10%), e quella per i salari del 15%. Questo riduce l’impatto di un calo delle vendite sul cash flow, e quindi le esigenze di liquidità. Un esempio può chiarire il meccanismo. Si consideri Hotel che deve chiudere, riducendo i ricavi per100 euro. Allo stesso tempo, l’hotel ridurrà le spese per servizi di pulizia per 50 euro. La caduta del cash flow per l’hotel è di 50 euro, mentre il resto si scarica sulla caduta di ricavi delle imprese di pulizia. Ma dato che le previsioni di crescita settoriale già tiene conto di questo calo per i settori fornitori, la somma della caduta complessiva delle vendite (100 euro per l’hotel e 50 per le imprese di pulizia) sovrastima il calo di risorse effettivo per le imprese. Per quel che riguarda il costo del lavoro, l’impresa può ridurre l’orario, utilizzare la cassa integrazione eccetera. La scelta di 50% e 15% viene motivata nella sezione finale dell’articolo sulla base di un modello di regressione. Alla fine di questa sezione riporto anche i conti per una parametrizzazione diversa, per dare un’idea di come i risultati dipendano da queste scelte.

Per gli oneri finanziari consideriamo due scenari: uno in cui le imprese continuano a pagare gli interessi sui debiti e le rate dei mutui e uno in cui questi pagamenti vengono sospesi per una moratoria (come fatto dal decreto per le piccole imprese). Date queste ipotesi è possibile:

  • individuare puntualmente le imprese che entrano in crisi di liquidità, cioè che esauriscono la liquidità iniziale a causa di cash flow negativo
  • conteggiarle
  • conoscere il mese in cui si osserverebbero queste crisi.

Nell’esercizio di base escludiamo quelle che avrebbero fatto registrare cash flow negativi anche senza l’emergenza sanitaria (186 mila società, pari al 20% del campione, con circa due milioni di dipendenti). Alla fine della nota riportiamo i numeri nel caso si voglia includere anche queste imprese.

Numero imprese in potenziale crisi di liquidità per effetto del COVID-19 (migliaia di società di capitali)

imprese in crisi di liquidità - cerved

Secondo lo scenario cauto, potrebbero entrare in crisi di liquidità 124 mila imprese (il 17,2% del campione), raggiungendo un picco a luglio. Successivamente, i casi di crisi causa COVID-19 si ridurrebbero velocemente. Secondo lo scenario estremo, il numero di imprese salirebbe a 176 mila (il 33%) a fine anno. In entrambi i casi, il costo sociale di questi fallimenti sarebbe importante: i lavoratori a rischio sarebbero 2,8 milioni nello scenario cauto e 3,8 milioni in quello estremo.

Questi numeri si basano sull’ipotesi che le imprese continuino a pagare interessi e rate di mutuo. Un pieno utilizzo della moratoria sui debiti consentirebbe di “salvare” circa 26 mila società nello scenario base (400 mila lavoratori) e circa 30 mila nello scenario pessimistico (600 mila lavoratori). È chiaro che è necessario intervenire con urgenza, perché un numero consistente di imprese uscirebbe dal mercato già dai primi mesi della crisi.

Grazie ai bilanci è anche possibile calcolare le iniezioni di liquidità minime necessarie per evitare le crisi, cioè la quantità di risorse necessarie a coprire l’accumulo di perdite una volta che l’impresa ha “bruciato” tutta la sua liquidità. Sotto l’ipotesi di moratoria sui debiti, nello scenario base sarebbero necessari circa 30 miliardi di euro tra marzo e agosto, con un supporto che toccherebbe un massimo di 8 miliardi in giugno. Nello scenario pessimistico le iniezioni per “salvare” tutte le imprese ammonterebbero a 80 miliardi: ai 30 spesi tra marzo e agosto secondo lo scenario base, se ne dovrebbero aggiungere altri 50 per far fronte al perdurare dell’emergenza. Le iniezioni necessarie salirebbero rispettivamente a 42 e 107 miliardi senza moratoria sui debiti

Iniezioni di liquidità necessarie per evitare le crisi

miliardi di euro, in caso di moratoria sui debiti

imprese in crisi di liquidità - cerved

Nello scenario pessimistico, le imprese “salvate” brucerebbero 21 miliardi di liquidità, che potrebbe essere necessario ricostituire almeno in parte per permetterne l’operatività. L’ammontare complessivo dei debiti finanziari di queste imprese è di 136 miliardi, una cifra che, se lasciate fallire, andrebbe a pesare sui bilanci delle banche. A questa cifra si sommano 161 miliardi di debiti commerciali che, se non pagati, diffonderebbero la crisi anche alle imprese meno colpite direttamente.

Terminata la crisi, queste imprese avrebbero una struttura sostenibile o sarebbero schiacciate dall’indebitamento? Il leverage (rapporto fra debiti finanziari e mezzi propri) delle società “salvate” aumenterebbe dal 73% al 117%. Anche se l’aumento è consistente, il forte processo di deleveraging delle imprese italiane dall’inizio della crisi finanziaria fa sì che il valore rimarrebbe comunque ampiamente sostenibile, tenendo anche conto dei bassi tassi di interesse sul debito. Inoltre, queste imprese hanno a bilancio ben 174 miliardi di crediti commerciali. Sarebbe sufficiente che il sistema finanziario ne scontasse poco più della metà per coprire i bisogni di liquidità delle imprese.

Le stime prodotte in questa nota dipendono da una serie di assunzioni, descritte in dettaglio nella sezione finale, e vanno quindi prese cum grano salis. Forniamo due esempi per dare un’idea di come cambiano i numeri a seconda delle assunzioni:

  1. Se assumiamo che l’elasticità della spesa per intermedi sia 0.7 invece che 0.5 e che quella per salari sia 0.3 invece che 0.15 (ad esempio per il ricorso a cassa integrazione), le necessità finanziarie si dimezzerebbero: servirebbero 15 miliardi nello scenario base e 40 in quello pessimistico
  2. Se si finanziano anche le imprese con un cash flow negativo già nei bilanci 2018 (escluse nei calcoli illustrati sopra), servirebbero 57 miliardi nello scenario base e 138 in quello pessimistico.

Questi esempi chiariscono le che i numeri che si ottengono dipendono curialmente dalle assunzioni. Ci sono però una serie di lezioni che valgono in generale. La prima è che è fondamentale intervenire subito perché le imprese a rischio sono tante. La seconda è che le iniezioni di liquidità sono notevoli, ma non rendono insostenibile la struttura finanziaria delle imprese. La terza è che vale la pena investire risorse pubbliche per salvare le imprese. Si stima che le garanzie pubbliche abbiano una leva di 1 a 14, cioè ogni euro di soldi pubblici può garantire 14 euro di prestiti alle imprese. Per coprire gli 80 miliardi dello scenario pessimistico, quindi, servirebbero meno di 6 miliardi di euro. L’ultima è che l’utilizzo di strumenti analitici permette di canalizzare le risorse in modo chirurgico verso le imprese che più ne hanno bisogno.

La procedura per calcolare il bisogno di liquidità delle imprese

La logica generale è la seguente: dato lo stock iniziale di liquidità, si fanno delle assunzioni sull’andamento delle vendite e dei costi. Ciò permette di calcolare il cash flow e quindi l’evoluzione della liquidità. Una impresa viene definita illiquida quando la liquidità diventa negativa.

L’equazione di base è la seguente:

cash flowit=venditeit-costiit =Delta liquiditàit-Delta Debitoit -Interessiit

Questa equazione permette di calcolare quando la liquidità diventa negativa, e per che ammontare. Sommando tutte le liquidità negative si ottiene il bisogno di liquidità aggregato.

Al momento sono disponibili i bilanci del 2018. Assumiamo quindi che, quel bilancio, approssimi i valori di stock e flusso che si sarebbero verificati in assenza della crisi Corona virus. Assumiamo che la liquidita a fine febbraio è quella che l’impresa aveva al 31.12.2018. Per ogni mese a partire da marzo, il tasso di crescita delle vendite è calcolato da Cerved sulla base di un modello settoriale, sotto due ipotesi: a) che lo shutdown duri 3 mesi e poi si torni gradualmente alle vendite di trend; b) che la caduta di marzo (che è il valore massimo) permanga per tutto il 2020. Definite dit la caduta percentuale di vendite, e Si le vendite nel 2018, le vendite mensili sono Sit=(1-dit)*S/12.

Assumiamo che le imprese abbiano esborsi solo per beni intermedi e salari. I due parametri necessari per calcolare l’evoluzione degli esborsi sono l’elasticità degli intermedi e del costo del lavoro alle vendite, cioè la variazione percentuale di ciascuno per data variazione percentuale delle vendite. Chiamate eM la prima elasticità e eW la seconda, dove M è spesa per intermedi e W il monte salari, l’equazione diventa:

liquiditàit= liquiditàit-1+(1-dit)*S/12-(1- eM*dit)*M/12-(1- eW*dit)*W/12

Una regressione della variazione percentuale della spesa per intermedi e delle ore lavorate sulla variazione percentuale del fatturato fornisce eM=0.9 e eW=0.27 rispettivamente. La regressione utilizza dati annuali e in periodi “normali”. Per tener conto della minor capacità di aggiustamento nel breve periodo e dell’eccezionalità della crisi, assumiamo valori più conservativi, cioè 0.5 per la spesa per intermedi e 0.15 per il costo del lavoro.

Con questa struttura si calcola l’evoluzione mensile della liquidità impresa per impresa. Quelle con liquidità negativa richiedono un’iniezione di fondi, pari a di quanto la liquidità diventa negativa. Il valore complessivo dei fondi necessarie è la somma dei fondi individuali.

La logica dell’approccio

È utile spiegare la logica sottostante l’esercizio.
La caduta totale delle vendite non è un indicatore corretto della necessità di liquidità del sistema. Un calo di vendite di un‘impresa viene in parte “scaricata” sui fornitori, riducendo l’impatto in termini di liquidità per l’impresa a valle.
Un esempio può chiarire questo punto.
Supponiamo che l’impresa 1 registri una caduta di vendite di 100 euro, a cui fa corrispondere una riduzione della domanda per intermedi all’impresa 2 di 50 euro. Nel complesso, il sistema registra una caduta compressiva delle vendite di 150 euro, ma l’effettiva riduzione è 100 euro, divisa fra le due imprese. Sommare quindi tutte le riduzioni di vendite sovrastima la caduta di fondi per il sistema nel suo complesso. Questo meccanismo è catturato nell’esercizio dal fatto che si assume un’elasticità dei beni intermedi alle vendite del 50% e dal fatto che le stime settoriali sulla riduzione delle vendite utilizzate sono quelle complessive (cioè 150 nell’esempio sopra). Un’analisi più rigorosa richiede di mettere in relazione i cali settoriali con l’elasticità degli intermedi alle vendite attraverso la matrice input-output. Questo approccio richiede un supplemento di analisi più complesso. La metodologia utilizzata rappresenta una prima stima che non impone questa consistenza interna. I numeri vanno quindi presi con cautela. La metodologia illustra comunque l’utilità di utilizzare i dati per formulare gli interventi a sostegno delle imprese.