Rif. D.L. 8.04.2020, n. 23 (noto come Decreto liquidità) convertito con modifiche con L. 5.06.2020 n. 40
Premessa
Come era purtroppo prevedibile, il contagio epidemico si è rapidamente espanso dal piano sanitario a quello finanziario ed economico, contagiando anche imprese che prima del lockdown si trovavano in situazione di equilibrio e con riguardo alle quali non erano in allora ragionevolmente prospettabili elementi pregiudizievoli alla continuità aziendale.
Come sottolineato da uno Studio Cerved, “I mancati pagamenti potrebbero amplificare il contagio finanziario ad altre imprese, con un effetto a catena sull’intera economia, coinvolgendo anche i pochi settori non colpiti da questa crisi. In poco tempo riprenderebbero a crescere gli NPL e il contagio si estenderebbe anche al settore finanziario. In questa fase, obiettivo fondamentale della politica economica è quindi quello di evitare i fallimenti”.
Si rammenta che secondo uno studio effettuato in fase di lockdown da Prometeia, società di consulenza e ricerca economica (che aveva dato per presupposta la ripresa graduale e scaglionata delle attività economiche a far tempo da maggio con contestuale attenuazione quindi del lockdown), “la contrazione del Pil italiano nel 2020 sarà almeno del 6,5%: in un solo anno, una recessione di portata equivalente alla caduta del biennio 2008-2009” (Cfr. Rapporto di Previsione marzo 2020 – Highlights Covid-19), ma, soprattutto, nel già drammatico scenario rappresentato da Prometeia “l’Italia si ritroverebbe nel 2022 con un livello del Pil ancora al di sotto del livello 2019 di oltre 2 punti percentuali, con un debito sovrano inchiodato al 150%”.
Da segnalare, quanto al costo dei ritardi nella ripresa dell’attività economica, che, secondo il centro studi di Confindustria, ogni settimana in più di blocco normativo delle attività produttive, si stima possa essere costato una percentuale ulteriore di prodotto interno lordo dell’ordine di almeno lo 0,75%.
Quanto ai dati più recenti, post lockdown, Bankitalia stima che il Pil italiano quest’anno dovrebbe contrarsi del 9,5% (Fonte AGI “Previsioni Pil dopo la Pandemia”) , e ciò peraltro “in uno scenario di base, in cui si presuppone che la diffusione della pandemia rimanga sotto controllo a livello globale e in Italia”, mentre invece “sviluppi più negativi rispetto a quelli delineati nello scenario di base potrebbero manifestarsi se emergessero nuovi rilevanti focolai epidemici”, ipotesi in cui il calo sarebbe ben più consistente e nell’ordine del 13%.
Sul recupero Banca d’Italia prevede una ripresa del +4,8% nel 2021 e del +2,4% nel 2022, anche se, secondo la già citata società di consulenza Prometeia, si stima che “solo nel 2025 il Pil potrà ritornare ai livelli pre-Covid” (Cfr. C. De Cesare).
Come aveva immediatamente avvertito Mario Draghi, “Speed is absolutely essential for effectiveness” (Cfr. M. DRAGHI, We face a war against coronavirus and must mobilise accordingly – Financial Times, March 25, 2020) stante il rischio concreto che in un tale scenario, non a caso descritto come “di guerra”, un mancato ed opportuno intervento possa bloccare l’intero sistema economico produttivo ed in particolare del ciclo attivo di impresa, con l’arresto improvviso dei flussi di cassa.
Tale scenario, nel quale l’imprenditore, da un lato, trova difficile esigere i propri crediti nei tempi previsti, dall’altro e conseguentemente, ha a sua volta difficoltà a adempiere regolarmente i propri debiti, non è purtroppo ad oggi affatto scongiurato: persiste infatti quella assoluta incertezza che rende impossibile fare applicazione del forward looking, essendo in larga parte sconosciute le variabili su cui tale giudizio si fonda ed essendo pertanto impossibile effettuare una previsione dell’evoluzione dei mercati e dei possibili flussi generati in un dato arco di tempo.
Incertezza assoluta che ad oggi tuttora sussiste, rendendo impossibile fare previsioni accurate, ma anche solo ragionevoli, potendosi al più scegliere fra gli scenari possibili il meno improbabile.
In altre parole, economia e diritto o si salvano assieme o non se ne salva nessuna delle due.
Quanto agli esiti del crollo del sistema produttivo ed ai “costi” di tale scenario, Draghi, ancora in pieno lockdown, era sin da subito stato chiarissimo, nel suo intervento all’indomani della discussione in ottica unionale circa i possibili rimedi per l’attuale emergenza: la distruzione del nostro sistema produttivo – discorso che nell’attuale fase, se possibile, è di attualità ancora più dirompente – va evitata quale ne sia il costo, perché tale costo sarà comunque inferiore al danno che patirebbe la nostra economia da tale eventuale perdita.
Molto si è discusso e si continua tuttora a discutere circa le misure di natura economico-finanziaria (oltre che fiscale e contabile) necessarie a tale salvataggio (anche all’indomani degli interventi attuati allo scopo, seppure in maniera a tutt’oggi insufficiente, principalmente con i decreti cura Italia e liquidità e poi con quello rilancio), meno di quelle più strettamente normative che sempre più, soprattutto con il disvelarsi dei concreti postumi del lockdown, risultano imprescindibili e non meno urgenti al fine di evitare la disgregazione del nostro tessuto imprenditoriale con conseguenti ripercussioni su quello sociale.
Misure normative che a tutt’oggi rimangono limitate ed insoddisfacenti, come ne sono prova la miriade di proposte legislative provenienti sia da parte degli operatori del diritto (magistrati e avvocati), sia dal mondo accademico che evidentemente avvertono la inadeguatezza dell’attuale normativa a fronteggiare la situazione emergenziale: com’è stato brillantemente sintetizzato, “ci vogliono norme nuove per disciplinare situazioni che sono completamente nuove”.
Invero, il solo rinvio dell’entrata in vigore delle restanti norme del CCII (disposto con il D.L. liquidità), ulteriori rispetto a quelle già entrate in vigore nel marzo dello scorso anno, che trascura quindi di valutare l’effetto dell’applicazione della vigente normativa concorsuale (ed anche societaria) al mutato, e stravolto, contesto economico-finanziario delle maggior parte delle imprese non può certo essere sufficiente, soprattutto considerando il carattere dichiaratamente “temporaneo” delle disposizioni introdotte dal decreto liquidità agli artt. 6, 7, 8 e 10 (e di cui si dirà).
Come noto, presupposto oggettivo della dichiarazione di fallimento è l’“incapacità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni”, incapacità che sussiste quindi anche in caso in cui l’attivo patrimoniale, pur superando il passivo, non risulti comunque facilmente liquidabile: ciò che evidenzia come in difetto di ulteriori incisivi interventi normativi a salvaguardia delle imprese, gran parte di esse, soprattutto le medie imprese, anche in un contenuto arco temporale, già oggi venuta meno l’applicabilità della norma che aveva disposto la improcedibilità fino al 30 giugno 2020 dei ricorsi per la dichiarazione di fallimento, rischi il default secondo l’attuale normativa concorsuale.
Trattandosi di pericolo riguardante, seppure con diverse gradazioni, tutta l’Europa, già in pieno lockdown l’esecutivo CERIL (Conference on European Restructuring and Insolvency Law) con lo Statement 20 marzo 2020, aveva espresso le proprie preoccupazioni circa la incapacità della legislazione concorsuale esistente in Europa di offrire risposte adeguate all’emergenza COVID-19, sollecitando i legislatori, sia dell’Unione che nazionali, da un lato, ad immediatamente:
- sospendere l’obbligo di avviare procedure di insolvenza basate sul sovraindebitamento;
- far fronte alla crisi di liquidità delle imprese
dall’altro, a prendere in considerazione misure dirette di finanziamento dell’impresa e di sostegno di imprenditori e lavoratori, anche con interventi di moratoria generalizzata delle azioni esecutive nei confronti delle imprese inadempienti.
Anche in considerazione di tali indicazioni CERIL, gli Stati dell’Unione hanno agito:
- con la concessione di prestiti d’emergenza garantiti dallo Stato;
- sospendendo gli obblighi degli amministratori delle Società in crisi di interrompere la gestione;
- congelando i procedimenti diretti alla dichiarazione di insolvenza delle imprese in crisi per effetto dell’emergenza.
Le misure normative sinora predisposte in Italia
In Italia, come noto, fino allo scorso 9 aprile (data di entrata in vigore del D.L. 8 aprile 2020, n. 23, cd. D.L. liquidità) dal punto di visto normativo non si era fatto praticamente nulla, se non, come detto, rinviare a febbraio 2021 l’entrata in vigore delle procedure di allerta, rinviare le udienze, sospendere il decorso dei termini processuali e poco altro.
Per quanto interessa la presente analisi (cioè gli interventi normativi volti a sostenere le nostre imprese), con tale ultimo provvedimento (nonché con il D.L. cura Italia, come si dirà), poi convertito con modifiche con la L. 5.06.2020 n. 4, raccogliendo i pressanti inviti di studiosi e operatori del diritto, sono state, fra altre, prese le seguenti misure.
Differimento dell’entrata in vigore del nuovo CCII al 1° settembre 2021
Le principali ragioni da più parti addotte a tale richiesta e sostanzialmente accolte dal D.L. liquidità (cfr. Relazione Illustrativa) sono le seguenti:
- in primo luogo il CCII non è stato, evidentemente, pensato per operare in situazioni in cui la discontinuità aziendale sembra aver investito tutto il mondo imprenditoriale ed essere quindi comune denominatore dello stesso: come è stato chiaramente evidenziato, la prospettiva adottata dal CCII “prescinde da una eventuale, possibile condizione di crisi generalizzata che possa riguardare, anche di riflesso, il sistema produttivo nel suo complesso e risulti, come tale, suscettibile di coinvolgere e tutti i settori e tutti gli operatori…”. In tale contesto di crisi generalizzata non solo alcune norme, ma l’intero impianto normativo del CCII, pensato rapportando la crisi dell’operatore economico all’andamento dello specifico settore di appartenenza, perde significato in uno “scenario nel quale si rovescia il mondo e, ove ci fossero, le imprese in ordinario funzionamento diventano le eccezioni”;
- inoltre l’entrata in vigore del CCII, del tutto verosimilmente, avrebbe allertato l’intero sistema degli indicatori e degli indici, con effetti dannosi per il sistema. Invero, diversamente dalla legge fallimentare che non prevede una positiva definizione di crisi (e a sensi della quale, comunque, lo stato di crisi costituisce condizione di accesso a procedure cui il debitore sceglie liberamente di accedere), tale definizione è invece contenuta nel CCII (art. 2, c. 1, lett. a) che ne fa la condizione di accesso alla procedura di allerta (che non è volontaria). Di fatto quindi, avuto riguardo agli indici elaborati dal CNDCEC, all’entrata in vigore del CCII, sarebbero seguite comunque, nonostante cioè il differimento a febbraio prossimo dell’obbligo di segnalazione da parte degli organi di controllo all’OCCRI, una valanga di segnalazioni da parte degli organi di controllo agli amministratori con il conseguente, probabile avvio dei procedimenti di composizione assistita ex art. 19 CCII avanti l’OCCRI. Invero il mero differimento degli artt. 14, comma 2 e 15 CCII, seppure necessario, non era sufficiente a mettere in sicurezza le imprese, posto che il sensibile incremento di quelle obbligate a dotarsi dell’organo di controllo a seguito della già avvenuta entrata in vigore delle modiche all’art. 2477 c.c. (art. 389 CCII), lasciavano presumere che, pur non essendo gli organi di controllo obbligati alla segnalazione all’OCCRI (obbligo, si è detto, differito a febbraio prossimo), gli stessi avrebbero comunque fatto pressione sugli amministratori perché presentassero l’istanza di composizione assistita ex articolo 19 CCII e ciò per sottrarsi a possibili responsabilità (vieppiù in una situazione di incertezza quale resta anche quella attuale e stante l’avvenuto differimento anche dell’esenzione di cui all’art. 14 CCII);
- ed ancora, come segnalato da più parti[3], appariva poco opportuno in una situazione emergenziale pretendere dagli operatori di rispondere alla stessa utilizzando strumenti mai utilizzati in precedenza e mai rodati, in assenza quindi, fra altro, di una giurisprudenza che, per quanto in alcuni casi frammentaria, ha in ordine ad alcune rilevantissime problematiche concorsuali ormai trovato degli approdi saldi: circostanza questa che, favorendo una maggiore uniformità di giudizio, contribuisce anche ad un clima di maggior fiducia nella giustizia (mai come in questo momento fortemente intaccata);
- infine tale differimento permetterà al Legislatore di apportare al CCII le modifiche necessarie per armonizzarne il testo con l’emananda disciplina di attuazione della Direttiva (UE) 2019/1023 (“Direttiva sulla ristrutturazione e sull’insolvenza”) in materia di ristrutturazione preventiva delle imprese (il cui termine di recepimento nei paesi membri scade il 17 luglio 2021).
Sul punto va evidenziato che da più parti è stata fortemente criticata la decisione di operare un rinvio “generalizzato” di tutta la normativa, evidenziando come divenga ogni giorno più evidente che la situazione di grave difficoltà purtroppo non riguarderà solo le imprese soggette a fallimento, ma anche le altre, nonché un numero elevatissimo di famiglie.
Talché l’entrata in vigore delle norme del CCII sulle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento (artt. 65-83 CCI) e sulla liquidazione controllata (artt. 268-283 CCI), avrebbero potuto essere utili per affrontare nell’immediato la crisi economica, dando modo di gestire in maniera più efficiente le ragioni dei creditori e quelle dei debitori sovraindebitati anche grazie alla liberazione da debiti non sostenibili, e quindi consentendo ai soggetti più fragili una ripartenza, al contempo evitando di intasare i tribunali di azioni di fatto infruttuose.
Improcedibilità delle procedure per la dichiarazione di fallimento e dello stato di insolvenza
L’art. 10 (Disposizioni temporanee in materia di ricorsi e richieste per la dichiarazione di fallimento e dello stato di insolvenza) del decreto liquidità ha, con alcune eccezioni, disposto l’improcedibilità di tutti i ricorsi per dichiarazione di fallimento e dello stato di insolvenza depositati nel periodo tra il 9 marzo 2020 e lo scorso 30 giugno 2020.
Invero, com’era stato giustamente evidenziato, in un contesto di crisi generale perde di significato il controllo giudiziario della gestione della crisi, essendo il sistema giudiziario (comunque di fatto non in grado di assorbire il possibile carico derivante dall’attuale emergenza), deputato a gestire situazioni patologiche, ma in condizioni di normalità del sistema economico.
Era stato quindi accolto l’invito ad attuare tale sospensione per un periodo di tempo sostanzialmente parametrato alla durata dell’emergenza (dichiarato con Delibera del Consiglio dei Ministri 31 gennaio 2020 per sei mesi, quindi sino al 31 luglio 2020 e che, ipotesi di questi giorni, potrebbe essere prorogato (inizialmente si diceva sino a fine anno ora si parla del 30 ottobre).
Il nostro Governo, in linea con le indicazioni CERIL, ma differentemente da quanto, ad esempio, ha fatto la Germania (e da quanto, da più parti, veniva autorevolmente suggerito), ha ritenuto di optare per una previsione di improcedibilità di durata contenuta (e al termine della quale le istanze per la dichiarazione dello stato di insolvenza potessero, come infatti oggi è, essere nuovamente presentate), ma di applicazione generalizzata.
Invero tale improcedibilità è stata estesa a tutte le imprese anche di grandi dimensioni (comprese quelle assoggettate alla disciplina dell’amministrazione straordinaria) e, originariamente, a tutte le tipologie di istanze, anche a quelle presentate dall’imprenditore in proprio e senza prevedere la necessità che lo stato di insolvenza fosse riconducibile all’emergenza epidemiologica: unica eccezione era il caso in cui il ricorso fosse presentato dal P.M. e accompagnato dalla richiesta di provvedimenti cautelari a tutela del patrimonio dell’impresa (e ciò per scongiurare condotte dissipatorie, di rilevanza anche penale, a danno dei creditori).
La legge di conversione ha poi accolto le principali obiezioni a tale applicazione generalizzata della norma, ampliando l’eccezione già prevista in caso di iniziativa del P.M. anche all’ipotesi di cui all’art. 7, numero 1 L.F., e introducendo due ulteriori eccezioni: l’ipotesi di ricorso presentato dall’imprenditore in proprio, quando l’insolvenza non sia conseguenza dell’epidemia di Covid-19 (imprese la cui permanenza sul mercato non era evidentemente auspicabile) ed quella dell’istanza di fallimento da chiunque formulata derivante dagli articoli 162, comma 2 (inammissibilità del concordato preventivo), 173, comma 2 e 3 (revoca dell’ammissione al concordato preventivo), e 180, comma 7 (mancata omologazione del concordato preventivo) L.F. (modifica che ha restituito il diritto di agire, ingiustificatamente confiscato dal D.L., dei creditori nei confronti di quelle imprese il cui stato di insolvenza non dipendeva affatto dal lockdown).
Tali modifiche introdotte dalla legge di conversione sono state condivisibili, visto che, com’era stato sottolineato, da un lato, la scelta originaria di tout court ibernare queste situazioni e di non consentire la dichiarazione di fallimento, appariva erronea, dall’altro, l’impossibilità dell’imprenditore di far volontariamente ricorso alla procedura di fallimento (come alle altre procedure concorsuali), lasciava perplessi, non essendo coercibile un obbligo di prosecuzione nell’attività di impresa.
Le ragioni sottese alla norma in commento consistevano nell’evitare il rischio di una dispersione del patrimonio produttivo senza un correlativo beneficio a vantaggio dei creditori (visto che la liquidazione sarebbe avvenuta in una situazione di mercato profondamente alterata), nonché nella volontà di non gravare i Tribunali, già in situazione di emergenza, di un ulteriore carico di lavoro.
Tale soluzione, per quello che può valere ora, cessato il periodo di efficacia della norma in commento, non era comunque sembrata del tutto convincente.
Innanzitutto perché non sembrava opportuno “<<ibernare>> le aziende lasciandole del tutto ferme, senza dichiarazione di fallimento, in attesa che il mercato riparta. Chi non paga, seppur tutelato, farebbe mancare la necessaria liquidità alle altre aziende con il rischio elevato di un default generalizzato”, per di più considerando la forte improbabilità, che infatti è ora divenuta certezza, che in quattro mesi la situazione di mercato non potesse tornare alla normalità.
Sotto il secondo profilo, se è sicuramente condivisibile la volontà di non gravare i Tribunali di ulteriore carico di lavoro che nella situazione attuale (ma, soprattutto, nel prossimo futuro) sarà certamente gravosissima, va evidenziato che la scelta di non lasciare semplicemente sospesi fino al 30 giugno 2020 i ricorsi per la dichiarazione di fallimento depositati, ma di dichiarane la improcedibilità (non potendo fino a tale medesima data essere gli stessi riproposti ovvero presentati nuovi ricorsi), ha comunque comportato il necessario un coinvolgimento dei Tribunali.
Tali criticità avrebbero potuto essere in parte arginate con soluzioni più “chirurgiche”, quali, ad esempio:
- richiedere, ai fini dell’applicazione della sospensione, com’era stato suggerito, una attestazione predisposta dall’impresa e pubblicata nel Registro Imprese da affidare ad un professionista indipendente munito dei requisiti di cui all’articolo 67, c. III, lett. d) L.F., con un coinvolgimento solo eventuale, quindi, dell’Autorità Giudiziaria. Solo stante tale attestazione l’eventuale giudizio per dichiarazione di fallimento, sarebbe stato improcedibile, salvo riconoscersi al creditore il potere di provocare l’intervento del Tribunale per il controllo giudiziale circa la “tenuta” di tale causa di improcedibilità, per evitare abusi (e ferma comunque la possibilità del debitore che non si fosse tempestivamente munito di tale attestazione e/o non l’avesse – ancora – pubblicata, di paralizzare in sede prefallimentare l’iniziativa del creditore, ricorrendone i presupposti);
ovvero
- consentire alle imprese in crisi nel periodo Covid-19 con intenzione di proseguire nell’attività di impresa di dichiarare esse stesse tale loro stato di crisi in via amministrativa, con un’autodichiarazione da pubblicarsi sempre presso il Registro Imprese (senza necessità quindi di ricorrere all’autorità giudiziaria e di munirsi di attestazione da parte di professionista indipendente), magari consentendo loro di destinare la liquidità al finanziamento della continuità aziendale, preferendola, per ragioni legate alla tenuta del sistema produttivo, rispetto all’adempimento degli obblighi dell’impresa verso i creditori aventi titolo e causa precedente al periodo Covid-19;
ovvero ancora
- semplicemente prevedere la fissazione della prima udienza dei procedimenti prefallimentari oltre il 30 giugno, evitando un inutile aggravio di spesa per i creditori (obbligati a ripresentare l’istanza) e di lavoro per i tribunali (obbligati comunque ad intervenire con l’emissione del decreto che dichiara l’improcedibilità).
Il D.L. liquidità, sempre che alla dichiarazione di improcedibilità faccia poi seguito, entro il 30 settembre 2020, la dichiarazione di fallimento, ha previsto la sterilizzazione di tale periodo di blocco esclusivamente ai fini:
- del calcolo del termine di decadenza di cui all’art. 69 bis L.F. per la proposizione delle azioni revocatorie (art. 10, c. 2);
- del conteggio del termine annuale ex art. 10 L.F. entro il quale l’impresa cancellata dal Registro delle Imprese può essere ancora dichiarata fallita se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla cancellazione o entro l’anno successivo (art. 10, c. 3).
La legge di conversione, raccogliendo alcune delle critiche sul punto, ha modificato, integrandola, tale previsione, stabilendo la sterilizzazione del periodo di blocco, oltre che ai fini suddetti, anche a quelli di cui agli articoli 64 (inefficacia degli atti a titolo gratuito), 65 (inefficacia dei pagamenti di crediti che scadono il giorno della dichiarazione di fallimento o successivamente), 67, comma 1 e 2 (revocatoria degli atti a titolo oneroso, pagamenti e garanzie) e 147 (fallimento dei soci di una s.r.l.) L.F.
Peccato però che tale consecutio operi solo a condizione che, come anticipato, alla dichiarazione di improcedibilità consegua la sentenza di fallimento, costringendo i creditori che non vogliano pregiudicare le azioni previste dalle norme indicate ad agire in giudizio perché tale improcedibilità venga dichiarata e poi presentare nuovamente istanza per la dichiarazione di fallimento entro il 30 settembre p.v.: così di fatto intasando i tribunali fallimentari.
Non è invece stata prevista la sterilizzazione del periodo di sospensione ai fini del consolidamento dell’ipoteca, con conseguente possibile inattaccabilità della stessa: ciò che, evidentemente, mal si concilia con il dichiarato fine di evitare che tale blocco venga a riverberarsi in senso negativo sulle forme di tutela della par condicio creditorum, certamente incise da tale omissione.
Sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione, della causa di scioglimento per riduzione del capitale sociale sotto il minimo e di valutazione del going-concern
La contemporanea assunzione di tali provvedimenti, unitamente a quello di “sospensione” delle procedure fallimentari, era stata sin da subito unanimemente ritenuta imprescindibile per non vanificare gli effetti di tale provvedimento, atteso che, come rilevato anche nella Relazione Illustrativa al D.L., in difetto, sarebbero state le stesse Società a dover comunque procedere alla liquidazione.
Il D.L. liquidità ha accolto tale invito con le disposizioni di cui agli artt. 6 e 7.
6 (Disposizioni temporanee in materia di riduzione del capitale)
È stata prevista, a decorrere dal 9 aprile 2020 (data di entrata in vigore del decreto) e fino al 31 dicembre 2020:
- la sospensione degli obblighi per le società di ricostituire il capitale sociale ovvero di liquidare la propria attività, con la disapplicazione delle norme di cui agli articoli 2446, II e III comma, 2447, 2482bis, IV, V e VI comma, e 2482ter c.c.;
- la inoperatività della causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, n. 4, e 2545duodecies c.c.
L’assoluta imprescindibilità di tale intervento in un’ottica di salvaguardia del sistema imprenditoriale era peraltro testimoniata dai risultati di uno studio pubblicato sul Sole24ore che aveva evidenziato come oltre il 22% delle nostre società di capitali subirà perdite tali da azzerare il capitale sociale[2].
Sul punto si segnala che la norma in esame (che non ha subito modifiche in sede di conversione) non sembra del tutto in linea con l’art. 19 della direttiva 2012/30/CEE, secondo cui nel caso di perdita grave del capitale sottoscritto, “l’assemblea deve essere convocata nel termine previsto dalla legislazione degli Stati membri, per esaminare se sia necessario sciogliere la società o prendere altri provvedimenti”.
Per tale ragione, a mio avviso correttamente, era stato ritenuto preferibile[3] rinviare “l’obbligo di adottare gli opportuni provvedimenti al termine all’esercizio successivo a quello in cui si è riscontrata l’erosione del capitale per perdite (dunque, al 31.12.2021, ove si verificassero nel corso del 2020)”, soluzione (già sperimentata in tema di start-up innovative), che comunque avrebbe garantito “una tempestiva informazione ai soci in ordine alle perdite”: suggerimento, come detto, purtroppo non raccolto in sede di conversione.
7 (Disposizioni temporanee sui principi di redazione del bilancio)
È previsto che, nella redazione del bilancio di esercizio in corso al 31 dicembre 2020, la valutazione delle voci possa essere effettuata nella prospettiva della continuazione dell’attività di cui all’articolo 2423bis, I comma, n. 1), c.c. qualora la stessa fosse sussistente nell’ultimo bilancio di esercizio chiuso in data anteriore al 23 febbraio 2020 (fatta salva la proroga di sessanta giorni per l’adozione dei rendiconti o dei bilanci d’esercizio relativi all’esercizio 2019 di cui all’art. 106 del D.L. cura Italia).
In ogni caso il criterio di valutazione utilizzato dall’impresa dovrà essere specificamente illustrato nella nota informativa, anche mediante il richiamo delle risultanze del bilancio precedente.
Viene in buona sostanza sospeso il principio di “valutazione delle voci” di bilancio nella “prospettiva della continuazione dell’attività”, il cd. going concern (principio richiamato non solo dall’art. 2423bis, I comma, di cui alla norma in commento, ma anche dall’art. 2428 c.c. in sede di stesura della relazione sulla gestione), fermi restando gli obblighi informativi degli amministratori verso l’assemblea (peraltro imposti per le S.p.A. dall’art. 58 della Direttiva 1132/2017), non essendo stati richiamati (e sospeso quindi il relativo dovere degli amministratori), l’art. 2446, I comma, c.c. e l’art. 2482-bis, I, II e III comma, c.c.: talché gli amministratori, al verificarsi delle perdite, saranno tenuti a convocare senza indugio l’assemblea dei soci.
Come correttamente sintetizzato “Nello scenario odierno alla perdita temporanea di reddito si associa l’impossibilità di effettuare previsioni di cassa. La continuità viene resa, pertanto, singolarmente retrospettica, atteggiandosi a profilo da rintracciare all’interno di bilanci già chiusi e redatti in data antecedente al 23 febbraio 2020, ossia di documenti anteriori all’irruzione del Coronavirus”.
La sospensione del principio del going concern è certamente condivisibile, essendo evidente che, trattandosi di valutazione prospettica in ordine alla capacità dell’impresa di continuare la propria esistenza operativa per un periodo di almeno dodici mesi, la stessa, si ripete, risultava preclusa in un quadro di assoluta incertezza ed eccezionale emergenza quale quello attuale.
Anche in questo caso, come confermato dalla Relazione Illustrativa al D.L. liquidità, lo scopo era quello, condivisibile ed essenziale, di evitare che gli amministratori di moltissime imprese “anche performanti”, ma in contingente difficoltà in conseguenza dell’emergenza, si trovassero nell’alternativa tra l’immediata messa in liquidazione ed il rischio di esporsi alla responsabilità per gestione non conservativa (art. 2486 c.c.).
Correttamente tale disposizione, oltre che di durata limitata (ma si spera sufficiente a traghettare l’impresa oltre il momento emergenziale) è stata anche opportunamente circoscritta alle sole imprese che al momento del lockdown erano in salute, e quindi avevano un capitale sociale non inferiore al minimo previsto, non essendosi verificata alcune causa di scioglimento, e relativamente alle quali sussisteva quindi il presupposto della continuità aziendale.
Infatti, come si legge nella Relazione Illustrativa al D.L. liquidità, lo scopo della norma era per l’appunto quello di “neutralizzare gli effetti devianti dell’attuale crisi economica conservando ai bilanci una concreta e corretta valenza informativa anche nei confronti dei terzi, consentendo alle imprese che prima della crisi presentavano una regolare prospettiva di continuità di conservare tale prospettiva nella redazione dei bilanci degli esercizi in corso nel 2020, ed escludendo, quindi, le imprese che, indipendentemente dalla crisi COVID-19, si trovavano autonomamente in stato di perdita di continuità”.
Con le norme in commento (artt. 6 e 7), quindi, si è deciso di non disporre (come hanno invece fatto altri Stati europei) la sospensione degli obblighi degli amministratori della società in crisi di interrompere la gestione, prevedendo solo, come detto, la temporanea sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione e la disapplicazione delle cause di scioglimento per riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo, sollevando pertanto gli amministratori dagli obblighi correlati su di essi altrimenti incombenti, e quindi dalla responsabilità per gestione non conservativa ex art. 2486 c.c.
Tale regolamentazione, che ha lasciato completamente deregolamentata l’attuale fase post-lockdown (non essendo in alcun modo disciplinato il comportamento richiesto agli amministratori delle società colpite dalla crisi causata dal blocco), appare comunque insufficiente in uno scenario in cui:
- permane, ex art. 2086, II comma, c.c. (nuova formulazione in vigore dal 16 marzo 2019), in capo agli amministratori l’obbligo di predisporre gli assetti adeguati e di attivazione per la tempestiva adozione degli strumenti per far fronte ai segnali di crisi, obblighi di cui nel presente scenario emergenziale sarebbe forse stata preferibile quantomeno una attenuazione.
Peraltro, una volta venuta meno l’efficacia della disposizione temporanea in oggetto, le imprese si troveranno nella difficilissima situazione di dover “valutare in termini ordinari la loro consistenza patrimoniale e le loro attuali (a quel tempo) prospettive economiche. Sarà indispensabile che l’impresa abbia mantenuto oppure riacquistato un equilibrio economico-finanziario e una consistenza patrimoniale tali da consentirle effettivamente la prosecuzione della propria attività”: ciò che appare difficilmente prospettabile per consistente numero di imprese;
- per le imprese si pone, oltre che un grave problema di capitalizzazione a medio termine, anche e sin da subito un problema di liquidità a brevissimo termine: talché, nonostante le misure anche da ultimo assunte, la richiesta di accesso al credito bancario, che sarà vitale per gran parte delle PMI, inevitabilmente esporrà gli amministratori nel presente scenario normativo a elevati rischi gestori. Ciò che potrebbe suggerir loro una gestione “difensiva” dell’impresa, attuando, pur fra le scelte possibili e comunque adeguate, quella più cautelativa per essi amministratori, piuttosto che quella più opportuna per il salvataggio dell’impresa in una situazione di assoluta eccezionalità storica.
Il tutto in un contesto in cui non è stata nemmeno prevista, per quanto concerne il danno addebitabile all’amministratore, la sterilizzazione della perdita accumulata nel periodo emergenziale, che, pertanto, in caso di contenzioso, potrebbe essergli addossata, con l’aggravante che, in caso di accertata responsabilità, il danno sarà quantificato a mezzo della presunzione (semplice) di cui all’art. 2486, III c., c.c. (nuova formulazione), e quindi del cd. criterio dei netti patrimoniali (e, in caso di mancanza/irregolarità scritture contabili, a mezzo della presunzione assoluta della differenza fra attivo e passivo).
Disapplicazione delle norme in tema di postergazione dei finanziamenti
È stata disposta la temporanea disapplicazione (sino al 31.12.2020) delle norme in tema di postergazione dei finanziamenti effettuati in favore della Società, dai soci o da chi esercita attività di direzione e coordinamento (artt. 2467 e 2497 quinquies c.c.).
Tale disposizione è condivisibile, stante l’evidente scopo di incentivare i canali alternativi per la possibile sostenibilità finanziaria dell’impresa, in un momento storico (che si spera possa essere concluso o comunque di grandemente ridotta difficoltà al 31.12.2020, ciò che peraltro appare sempre meno verosimile) in cui la ratio di tali norme, come noto intese a sanzionare indirettamente i fenomeni di c.d. sottocapitalizzazione nominale, disincentiverebbe i soci (o chi esercita attività di direzione e coordinamento) a finanziare l’impresa in un frangente in cui invece più che mai necessitano (anche) tali flussi finanziari.
Disposizioni in materia di concordato preventivo e di accordi di ristrutturazione e di sovraindebitamento
Ratio originaria dell’art. 9 del D.L. liquidità era evitare che l’eventuale aggravamento della situazione di crisi dovuta all’emergenza sanitaria dell’impresa già soggetta a procedura di concordato preventivo o ristrutturazione ex art. 182 bis L.F., potesse pregiudicare il buon esito del risanamento, portando al fallimento dell’impresa stessa.
La legge di conversione, pur conservando tale ratio, ha peraltro significativamente inciso la norma in commento, in primo luogo (per ovviare alle critiche levate avverso l’esclusione dal perimetro della norma della disciplina del sovraindebitamento) prevedendo che la proroga di sei mesi dei termini di adempimento si applichi non solo ai concordati preventivi ed agli accordi di ristrutturazione dei debiti, ma anche agli accordi di composizione della crisi e ai piani del consumatore omologati e aventi scadenza in data successiva al 23 febbraio 2020.
Per la verità la giurisprudenza era comunque giunta di fatto ad ovviare a tale omissione facendo applicazione del combinato disposto dell’art. 91 D.L. cura Italia e degli artt. 1218 e 1223 c.c. e ritenendo quindi l’art. 91 applicabile a qualsiasi rapporto contrattuale o procedimentale instaurato prima delle disposizioni di contenimento o durante la loro vigenza e quindi anche alla procedura di sovraindebitamento.
La disposizione in esame, sin dalla sua formulazione nel D.L. liquidità, ha poi previsto per i concordati preventivi e per gli accordi di ristrutturazione dei debiti:
- non ancora omologati alla data del 23 febbraio, la possibilità per il debitore di richiedere un termine di 90 giorni per la presentazione di un nuovo piano e di una nuova proposta di concordato o di un nuovo accordo di ristrutturazione, che tenga conto dei fattori economici sopravvenuti per effetto della crisi sanitaria. Al fine di evitare l’applicazione di tale disposizione a procedure il cui insuccesso non dipende dalla crisi Covid19, tale termine non è prorogabile e non può essere concesso nel concordato preventivo quando all’esito della votazione non siano state raggiunte le maggioranze per l’approvazione;
- in cui il debitore intenda modificare soltanto i termini di adempimento originariamente previsti, la possibilità presentare al Tribunale, sino all’udienza fissata per l’omologazione una memoria contenente l’indicazione dei nuovi termini (la cui proroga non può essere superiore a sei mesi) e la documentazione comprovante la necessità della proroga. Acquisito il parere del commissario giudiziale, il tribunale, se sussistono i requisiti richiesti, omologa il piano dando espressamente atto delle nuove scadenze;
- in fase, rispettivamente, di concordato in bianco (c. 4) o di preaccordo di ristrutturazione dei debiti (c. 5), quando i termini per il deposito della proposta e del piano siano già stati prorogati, la possibilità per il debitore di presentare istanza per un ulteriore proroga di 90 giorni.
Tale istanza:
- dev’essere presentata prima della scadenza della proroga dei termini ordinari;
- è ammessa anche se risulta già pendente un ricorso per la dichiarazione di fallimento;
- deve indicare gli elementi che ne rendono necessaria la concessione con specifico riferimento ai fatti sopravvenuti per effetto dell’emergenza epidemiologica COVID-19.
Il Tribunale:
- nel concordato in bianco, acquisito il parere del commissario giudiziale se nominato, concede la proroga quando ritiene che l’istanza si basi su concreti e giustificati motivi;
- nei procedimenti di preaccordo, provvede in camera di consiglio e concede la proroga quando, oltre ai concreti e giustificati motivi per la proroga, ritiene sussistenti i presupposti per pervenire a un accordo di ristrutturazione dei debiti con i creditori che rappresentano almeno il 60% dei crediti.
Le norme citate (commi 4 e 5 dell’art. 9), consentono quindi, a certe condizioni, una proroga di ulteriori 90 giorni: norme che vanno lette in combinato con l’art. 36, che ha previsto una sospensione generalizzata sino allo scorso 11 maggio 2020 dei termini processuali, tra cui pacificamente rientra, come risulta da tutte le decisione assunte sul punto dai diversi Uffici giudiziari, anche quello relativo al deposito del piano di concordato o all’accordo di ristrutturazione.
Va da sé quindi che, sulla base del combinato disposto delle predette disposizioni del D.L. liquidità (artt. 9 e 36) sembrerebbe che il debitore potesse disporre di circa ulteriori 150 giorni per il deposito.
Ad ogni modo, è evidente che la possibilità, in caso di proposizione di domanda di concordato con riserva o di omologazione degli accordi di ristrutturazione con riserva, di posticipare la presentazione del piano rappresenta al più uno strumento tampone, ma di certo non è una soluzione, “perché allo scadere della proroga il piano dovrà essere presentato ed è improbabile che nel breve lasso di tempo di tre mesi le difficoltà che la redazione del piano oggi presenta possano essere superate”.
Difficoltà che, stante impossibilità di prevedere gli scenari futuri, fanno sì che all’imprenditore sia precluso non solo fare previsioni accurate, ma anche solo ragionevoli e di redigere dunque un piano strategico, non sapendo affatto cosa capiterà nel futuro a lui e (tantomeno) ai suoi partners commerciali.
Di qui la genesi della seconda “novità” apportata alla norma in commento dalla legge di conversione, con i commi 5bis e 5ter, verosimilmente introdotti proprio nel tentativo di dare risposta all’esigenza avvertita dall’imprenditore di disporre di uno strumento che gli consentisse di conservare la gestione d’impresa al contempo, ponendolo al riparo da eventuali azioni esecutive e cautelari, senza peraltro obbligarlo alla (impossibile) redazione (ed ancora più impossibile attestazione) di un piano: purtroppo, com’è stato efficacemente osservato, “i rimedi sono peggiori del male o inefficaci”.
Il comma 5bis, ha invero previsto che l’imprenditore sino al 31 dicembre 2021 possa rinunciare alla procedura di concordato con riserva o di accordo di ristrutturazione con riserva dichiarando di aver nel frattempo predisposto un piano attestato e di averlo iscritto al registro delle imprese, mentre il comma 5ter ha disposto l’inapplicabilità sino al 31 dicembre 2020 della previsione di cui all’art. 160, comma 10, L.F. (secondo cui qualora penda il procedimento per la dichiarazione di fallimento il termine per il deposito del concordato non può essere superiore a sessanta giorni, prorogabili di altri sessanta), potendo quindi il debitore – nonostante la pendenza di un’istanza di fallimento – giovarsi per il deposito del concordato di un termine fino a centoventi giorni, prorogabile di ulteriori sessanta.
Risulta evidente che la contropartita della misure protettive – possibile stante l’avvio del procedimento con lo strumento del concordato con riserva o dell’accordo di ristrutturazione con riserva – è rappresentata dalle pesanti restrizioni nello svolgimento dell’attività d’impresa e dal divieto di pagare debiti anteriori di cui all’art. 161, comma 7, L.F., che tali strumenti pure comportano: ciò che induce a dubitare fortemente della concreta utilità di tale novità legislativa, che per di più potrebbe essere utilizzata con finalità abusive.
Inoltre, dato che con la chiusura della procedura di concordato o di omologa dell’accordo di ristrutturazione, i creditori riacquistano la possibilità di agire esecutivamente ed in via cautelare ed anche di proporre istanza di fallimento, va da sé che lo strumento pensato dal legislatore dell’emergenza potrà essere utile solo a condizione che l’imprenditore sia effettivamente in grado di individuare una soluzione alla crisi e di trasfondere tale soluzione in un piano concretamente attuabile.
Ciò che, si è detto, è impossibile in una situazione quale quella attuale di assoluta incertezza e che pertanto rende evidente l’inutilità pratica della soluzione offerta dal legislatore dell’emergenza e dello strumento correlativamente messo a disposizione dell’imprenditore, atteso che – qualora la soluzione stragiudiziale proposta non sia tranquillante per il ceto creditorio ed il piano predisposto non sia quindi “ragionevole e credibile” ed in grado di effettivamente porre rimedio alla situazione di crisi – nulla potrà impedire ai creditori di proporre istanza per la dichiarazione di fallimento.
Per di più con tali norme in materia di concordato preventivo e accordi di ristrutturazione (art. 9 D.L. liquidità), pur con i correttivi introdotti dalla legge di conversione, il legislatore dell’emergenza non sembra aver colto l’ampiezza e la profondità della crisi attuale, che invero, verosimilmente già dal prossimo autunno, riguarderà un numero rilevantissimo di imprese, con la conseguente implosione degli uffici giudiziari privi delle necessarie risorse e non in grado di sostenere il relativo carico di lavoro. Purtroppo, non si tratterà di particolari e circoscritte situazioni di crisi, ma di una situazione di crisi generalizzata, alla cui risoluzione quindi la giurisdizione non è certo preposta (o comunque non dovrebbe esserlo, per supplire ad altre deficienze istituzionali).
Si ripete, “ci vogliono norme nuove per disciplinare situazioni che sono completamente nuove”: si pensi solo alla consustanziale inidoneità dello strumento del concordato preventivo – il cui stesso DNA presuppone la disponibilità in capo all’imprenditore di una serie di elementi informativi oggi invece del tutto ignoti – ad essere utilizzato per affrontare le attuali problematiche.
Il legislatore, per il momento, ha preferito occuparsi dei sintomi piuttosto che della malattia, così permettendo (o quantomeno non impendendo) che il contagio possa diffondersi anche alle poche imprese ancora immuni dalla crisi: forse, anche in questo caso, proposte delle quali si è già dato conto, si potrebbe immaginare di “seguire un percorso amministrativo e non giudiziario con il riconoscimento legale dello stato di difficoltà finanziaria”, peraltro assicurando che, qualunque sia la soluzione adottata, la stessa, da un lato, preveda un ombrello protettivo per l’impresa dalle azioni esecutive e cautelari, dall’altro limiti i controlli sull’attività d’impresa, anche per evitare una insostenibile lievitazione dei costi di procedura.
Disciplina dei contratti pendenti e delle azioni ordinarie ed esecutive
Il D.L. cura Italia, convertito con modifiche con L. 27/2020, si è limitato, a grandi linee, a prevedere:
- all’art. 56, l’irrevocabilità anche parziale fino al 30 settembre 2020 delle linee di credito a breve, la proroga del termine di rimborso dei finanziamenti non rateali aventi scadenza anteriore a tale data e la sospensione per i mutui e gli altri finanziamenti a rimborso rateale del pagamento delle rate/canoni in scadenza sino al 30 settembre 2020;
- all’art. 83, il rinvio d’ufficio dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 delle udienze dei procedimenti civili e penali a data successiva al 15 aprile 2020 e per la stessa durata, la sospensione del decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali e quindi anche dei termini per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e dei procedimenti esecutivi, per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali;
- all’art. 91, in materia di ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento, che il rispetto delle misure di contenimento “è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
Il successivo D.L. liquidità, convertito con modifiche con L. 40/2020, in buona sostanza:
- non ha inciso sull’art. 56;
- all’art. 36, ha prorogato sino all’11 maggio 2020 il termine di cui all’art. 83 D.L. cura Italia relativo al rinvio d’ufficio delle udienze dei procedimenti civili e penali ed alla sospensione del decorso dei termini;
- non ha inciso sull’art. 91, nulla aggiungendo sul punto;
- ha introdotto l’art. 11 (Sospensione dei termini di scadenza dei titoli di credito),
- sospendendo su tutto il territorio nazionale i termini di scadenza, ricadenti o che iniziavano a decorrere nel periodo compreso tra il 9 marzo 2020 e il 31 agosto 2020, relativi a vaglia cambiari, a cambiali e ad ogni altro titolo di credito o atto avente forza esecutiva;
- chiarendo il campo di applicazione della sospensione, con specifico riferimento agli assegni bancari e postali;
- sospendendo la trasmissione alle CCCII da parte dei pubblici ufficiali dei protesti levati dal 9 marzo 2020 fino al 31 agosto 2020;
– ha introdotto l’art. 37bis (Sospensione temporanea delle segnalazioni a sofferenza alla Centrale dei rischi e ai sistemi di informazioni creditizie),
- sospendendo, a decorrere dalla data dalla quale tali misure sono state concesse fino al 30 settembre 2020, le segnalazioni a sofferenza effettuate dagli intermediari alla Centrale rischi di Banca d’Italia, ovvero ai e ai sistemi di informazione creditizia.
A usufruire della sospensione della segnalazione alla Centrale rischi sono le piccole e piccolissime imprese in difficoltà che hanno i requisiti per accedere al congelamento temporaneo dei pagamenti di prestiti introdotto dal Governo con il decreto Cura Italia (n. 18/2020) per sostenere l’emergenza sanitaria e la crisi economica legata al lungo lockdown. Banca d’Italia con le risposte alle Faq ha chiarito che dovrà trattarsi di soggetti “in bonis”, ovvero che non avevano segnalazioni alla centrale rischi antecedenti alla data della richiesta di aiuto.
Di fatto sia l’art. 83 Decreto cura Italia, sia l’art. 36 Decreto liquidità hanno semplicemente previsto una moratoria (anche) per le azioni esecutive sino all’11 maggio 2020, nulla invece dettando in ordine agli effetti derivanti dall’inadempimento degli obblighi di pagamento, che pertanto permangono, così come resta ferma la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto.
Tale moratoria, si è rammentato, era applicabile a tutti i termini processuali e quindi anche ai termini per il deposito del piano o dell’accordo di ristrutturazione, ferma peraltro l’applicazione dell’art. 9 D.L. liquidità sui termini di adempimento.
È invece discusso se tale moratoria potesse applicarsi agli obblighi informativi periodici nel concordato preventivo, trattandosi di termine sostanziale.
In verità, nemmeno l’art. 91 del D.L. cura Italia (che non è stato in alcun modo integrato dal D.L. liquidità) ha previsto la sospensione o la proroga dei termini contrattualmente previsti, ma soltanto una limitazione o riduzione della responsabilità di contenuto indefinito, la cui applicazione necessiterà comunque (come ogni giorno diviene più evidente) dell’intervento del giudice, con tutte le problematiche del caso, aggravate dall’attuale situazione emergenziale.
In ordine alla possibile estensione applicativa di tale norma, oltre all’interpretazione data dalla già citata sentenza del Tribunale di Napoli in materia di sovraindebitamento, soccorre anche autorevole dottrina secondo cui invero “…la previsione appare applicabile tanto al caso di significativa difficoltà nell’esecuzione della prestazione, quanto a quello delle difficoltà inerenti all’apprestamento dei mezzi occorrenti per l’esecuzione. Del resto, la dissociazione programmata dal comma 6 bis [comma per l’appunto aggiunto dall’art. 91 D.L. cura Italia all’articolo 3 del D.L. 23.02.2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla L. 5.03.2020, n. 13] tra la linea della (non) responsabilità e la linea della liberazione apre senz’altro la via alla ricomprensione, nel contesto della protezione in questione, anche delle obbligazioni di cose di genere. Senza contare che il testo normativo afferma esplicitamente che la valutazione relativa alla significativa difficoltà della prestazione va «sempre» effettuata”.
In questo contesto l’unica cosa che risulta chiara è che l’art. 91 del D.L. cura Italia, come ha avuto da ultimo occasione di affermare anche l’Ufficio del Massimario e del Ruolo presso la Corte di Cassazione è di “ardua interpretazione”, sia perché sembrerebbe un inutile doppione dell’art. 1218 c.c. e sia perché non esclude tout court la responsabilità “da adeguamento” alle misure “anti-Covid”, limitandosi invece a prevedere che il rispetto di queste sia “sempre valutato” ai fini del giudizio di responsabilità.
Pertanto, seppure anche nel caso in esame, “spetta al debitore dimostrare di aver fatto uso della ordinaria diligenza per rimuovere gli ostacoli creati all’esatta esecuzione degli impegni contrattualmente assunti”, esso debitore che peraltro, nella particolare fattispecie in esame, per liberarsi dalla responsabilità, dovrà offrire la prova del nesso eziologico fra inadempimento e rispetto delle prescrizioni “anti-Covid”.
Questa sospensione dei termini fino al 15 aprile, poi prorogata all’11 maggio, per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali, ha riguardato, si è detto, anche i termini per la proposizione dei procedimenti esecutivi (pur restando possibile chiedere la dichiarazione di urgenza nei casi in cui la ritardata trattazione possa produrre grave pregiudizio alle parti e quindi ai creditori): è immaginabile, stando così le cose, il caos che seguirà negli uffici giudiziari all’effettiva ripresa dell’attività giudiziaria che si spera possa finalmente avvenire in autunno.
Il problema è che tale normativa non ha adeguatamente soppesato le ragioni dello Statement CERIL che evidenziava come in un contesto quale quello attuale (purtroppo verosimilmente destinato a persistere per un apprezzabile lasso temporale) le azioni esecutive potrebbero provocare un danno maggiore del beneficio apportato al sistema (talché sarebbe forse stato ragionevole estendere la moratoria ad un periodo più ampio).
Ci si è soltanto preoccupati di evitare durante il periodo di lockdown il sovraffollamento degli uffici giudiziari (ma non peraltro nel periodo immediatamente successivo), e non invece di disciplinare in qualche modo la fase successiva, nella quale molte imprese si troveranno a doversi difendere da aggressive iniziative dei creditori e nella necessità di dover predisporre strumenti di recupero della continuità aziendale, nella vigenza peraltro dei nuovi obblighi di adozione degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili finalizzati al monitoraggio dell’impresa e della sua possibile impresa (art. 2086 c.c.).
Già all’indomani della pubblicazione del D.L. cura Italia da più parti si erano quindi invocate misure più incisive (ed efficaci) di quelle adottate (nonché di quelle che sono poi concretamente state adottate con il D.L. liquidità, anche così come successivamente modificato in sede di conversione), relative, per quanto concerne la presente indagine, a:
- una moratoria generalizzata per i pagamenti con scadenza successiva all’inizio della fase di emergenza e di durata temporale sufficiente a proteggere l’impresa (anche se, va ricordato, questa situazione di generale “stand still”, se da un lato, non obbliga l’imprenditore al pagamento dei debiti in scadenza, dall’altro rende inesigibili i crediti dallo stesso vantati nei confronti di altri imprenditori);
- la esclusione dalle possibili cause di risoluzione dei contratti pendenti di quegli inadempimenti successivi all’emergenza e dalla stessa causati;
- una moratoria generalizzata delle azioni esecutive, magari raggiunta attraverso un meccanismo di autodichiarazione da parte dell’imprenditore disposto a sborsare gli interessi di mora al fine di ottenere una sorta di temporaneo automatic stay concesso per legge, senza il quale peraltro potrebbe rilevarsi necessario l’accesso alla procedura concordataria (che per l’appunto contempla l’automatic stay).
Nulla di tutto questo ha ritenuto di fare il D.L. liquidità (né la legge di conversione), non essendo quindi state assecondate le indicazioni di cui alla Statement CERIL di prendere in considerazione interventi di moratoria generalizzata se non dei pagamenti con scadenza successiva all’emergenza, quantomeno delle azioni esecutive nei confronti delle imprese insolventi.
In effetti la questione non è di semplice soluzione, atteso che l’applicazione indiscriminata di tali misure di fatto impatterebbero anche sulle stesse imprese a protezioni delle quali dovrebbe essere assunta, venendo in concreto a dover essere dalle stesse sopportata: inoltre, se da un lato l’applicazione automatica di tale misura avrebbe il vantaggio di evitare controversie in ordine alla operatività della stessa, dall’altro potrebbe spingere anche quelle imprese che ancora riuscirebbero ad adempiere regolarmente le proprie obbligazioni a sospendere comunque i pagamenti, rallentando ulteriore un’economia già azzoppata.
Forse anche in questo caso (come al fine dell’improcedibilità dell’eventuale azione di fallimento), si sarebbe potuto rimettere l’iniziativa all’impresa insolvente, consentendole, come è già stato da più parti suggerito, di attestare – tramite un professionista indipendente con i requisiti di cui all’art. 67, c. III, lett. d) L.F., con dichiarazione da pubblicarsi presso il Registro delle Imprese – di essere affetta dalle conseguenze economiche del coronavirus, salva sempre la possibilità degli interessati di ottenerne la revoca giudiziale, difettandone i presupposti.
In conclusione è indubitabile il perdurante stato di caos – in matematica rappresentato dall’incertezza combinata con la velocità dei mutamenti – con cui oggi e, soprattutto, a quanto sembra, nel prossimo autunno, le imprese dovranno confrontarsi, caos che gli interventi normativi finora attuati (come anche quelli economici-fiscali) non hanno purtroppo contribuito a diminuire.
Allo stato, quindi, non rimane che confidare nel fatto che nessuno supera nella gestione del caos gli italiani, ed in particolare gli imprenditori italiani, “abituati al fatto che non succedano le cose che invece dovrebbero succedere, capaci di concentrarsi sul perché piuttosto che sul che cosa di procedure e istruzioni … ed in un mondo che ha tanti che cosa che cambiano velocemente che chi sta sul perché …ha un grande vantaggio”.